“Il Tavoliere e il grano”

“IL TAVOLIERE E IL GRANO”

di  Raffaele Vanni

Peppino Beltotto 2

Il lavoro nei campi, a quei tempi, ti veniva a cercare nella culla.  Ricorreva a mille artifizi pur d’averla vinta. Subdolo, si avvaleva di chiunque e di ogni mezzo per raggiungere il suo scopo. Ce la faceva quasi sempre. Si travestiva della gioia per il papà che tornava dalla campagna, del dolce addormentarsi fra le braccia della mamma ancora affaccendata. Usava tutti i mezzi. Dal canto del gallo all’alba, al pigolio dei pulcini, alle nidiate dei coniglietti. La terrazza era una piccola aia ed una grande dispensa: gli animali e l’erba che li alimentava, le fascine e la carbonella per l’inverno, grappoli di uva, pomodori, cotogne, melograni, e vino, olio, mandorle, fichi secchi, conserva di pomodoro  seccata al sole e tant’altro.
Agli inizi degli anni ’30, mio padre era poco più di un fanciullo. Ultimo di quattro figli di una famiglia contadina, era stato facile preda. Mio nonno aveva tentato di opporsi, a modo suo. Gli concesse un anno di frequenza distribuito in tre anni di prima elementare.
Una sera di metà giugno, il nonno tornò particolarmente soddisfatto dalla piazza. La nonna apparecchiò per la solita cena frugale alla tremula luce della candela ricevuta dal priore della confraternita di Santo Stefano e si sedettero. “Ges Crist” [Gesù Cristo] disse nonno, “Ogg e sembr” [ Oggi e sempre] rispose nonna, tutti si fecero il segno della croce e cominciarono a mangiare. Ad un certo punto mio nonno alzò lo sguardo, fissò prima mia nonna, poi  mio padre. “Uagliò,  e parloite cu fattaure, pscrè mateine subete a stè alla massaroje c’accumenze l’aire” [ ragazzo, ho parlato con il fattore, dopodomani mattina subito devi stare alla masseria che incomincia la mietitura]. Quindi finirono la cena. Il tempo che mia nonna sparecchiasse e rinchiudesse a chiave nella credenza il pane avanzato e mio nonno preparasse gli arnesi per l’indomani, che ognuno aveva già raggiunto il proprio giaciglio. Mia nonna, attese che mio nonno si mettesse a letto e spense la candela. “Ges Crist”, “Ogg e sembr”.

Peppino beltotto1

Quegli anni la raccolta del grano durava da giugno a settembre. Frotte di mietitori scendevano  nella piana dal subappenino. I larghi marciapiedi di via Trinità erano i loro giacigli, sotto il capo la bisaccia, in fondo la falce. La calca, a ridosso delle mura della chiesa di S. Anna. La fede colmava la mancanza degli affetti familiari e stemperava la durezza del lavoro.
La locomobile nera, col suo rumore infernale e l’alto camino che eruttava fumo, incombeva su tutti. Guai a fargli torto. A volte si vendicava sputando scintille, capaci di mandare in fumo il raccolto di un intero anno fra la disperazione di tutti. All’alba, lacerava l’aria col suo fischio, pretendendo tutti al suo cospetto. Metteva assieme caldo, polvere, moscerini, sudore, una manciata di grida e serviva.

Solo al tramonto appariva saziarsi. Il fumo cominciava a diradarsi, la biella a rallentare, l’albero della grande ruota a girare meno vorticosamente fino a fermarsi. Arrogante, pretendeva perfino gratitudine in qualche scarno discorso abbozzato durante la cena. I cavalli erano già pancia a terra quando, spento il lume a petrolio, ognuno s’abbandonava alla notte nel grande dormitorio della masseria.
Solo la Festa Patronale a Ferragosto riuscì ad impietosirla o forse lo fece per non commettere un sacrilegio.  Alla  vigilia, si spense all’imbrunire per riaccendersi l’indomani l’altro. Fu così che mio padre poté ricongiungersi alla famiglia in quel giorno di festa.

Peppino Beltotto

Una sera di metà settembre, il nonno tornò particolarmente soddisfatto dalla piazza. Aveva riscosso il compenso dei tre mesi di lavoro di mio padre, secondo quanto da lui convenuto: una certa quantità di formaggio, di legumi, e poche lire.

Raffaele Vanni 1

 

 

 

 

 

Raffaele Vanni

La foto ritrae una sessola e gli occhiali che normalmente indossava “u mataiuole”, l’operaio che allontanava la paglia dal gran crivello. La seconda è una scatola di chinino del 1926, somministrato per combattere la malaria, specialmente a quanti mietevano all’Alma Dannata. La vendita del farmaco avveniva sotto l’egida del Ministero delle Finanze, piuttosto che della Sanità.

 

Mietitura, testimonianza di Peppino Lupo:

“La squadra degli operai che facevano capo ad una trebbiatrice,stavano lontano da casa 30 – 40 giorni andavano anche a Minervino,Spianazzola ecc. oltre che nelle masserie del circondario. Prima del tramonto qualcuno della squadra preparava la cena, spesso pasta e patate a volte un “padrone ” generoso offriva del vino e qualche gallina

Peppino Lupo

Gli operai addetti all’elevatore erano due, che con le forche spingevano i fasci sull’elevatore. Nella squadra c’erano le ” quote rosa ” donne utilizzate come gli uomini,ma con un salario ridotto.

La trebbiatura del grano era un rito con cui si aprivano i raccolti dell’anno.Le operazioni della raccolta del grano cominciavano a fine giugno con la mietitura,quindi la trebbiatura ,lavorava una squadra formata da : un capo mastro (u mèste) il fuochista e un sotto fuochista addetti ad alimentare con la paglia la locomobile, poi c’erano due (menatoure) addetti a portare i fasci di grano (greagne) sull’ elevatore e un addetto ad insaccare il grano e allontanare la paglia (u pulevouse) e un addetto a spostare la paglia con una trave tirata da un cavallo (la marenoire).Peppino Beltotto 5

L’acqua minerale in bottiglia non esisteva, gli operai che andavano con la trebbiatrice per le masserie,bevevano come potevano…acqua dei pozzi,o quella che serviva per la locomobile; quando si capitava ad una masseria il cui proprietario era “nu bbune patroune” ci scappava un barile di vino. L’olio sulla minestra lo amministrava “u curatele” che condiva la minestra con una filastrocca: Sturnoire e Sturnarelle bivie d’Orte e Carapelle” seguita da un coro: curatele, mitte n’alte paioise?”

Le foto ritraggono scene di mietitura del 1952 nelle campagne tra Margherita di Savoia e Trinitapoli. (cliccare sulle foto per ingrandirle)

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Nella foto:Tommaso Beltotto, ‘u mèste’ beve dal fusto dell’acqua che serviva per alimentare la locomobile

 

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