‘A chiànghe

‘A chiànghe

 Di Raffaele de Seneen  e  Romeo  Brescia

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         Carnezzeria in siciliano, beccheria da altre parti, che non è derivazione di becco, il maschio della  capra, ma del francese boucherie (macello), per arrivare alla odierna  macelleria, oggi meglio sarebbe definirla  “boutique della carne”, per l’eleganza a cui tendono certi locali, per la ricercatezza nell’esposizione del prodotto, per la quantità e varietà locali e nazionali, bipedi e quadrupedi, ed estere, dalla carne di struzzo a quelle argentine, ecc. Tagli specifici per ogni particolare pietanza e semi-preparati solo da mettere in tegame o padella.

Non era così un tempo quando l’alimento carne compariva solo sulle tavole dei più abbienti, e sporadicamente sulle altre, tant’è che il nostro termine dialettale “chiànghe”, pietra, lastra per pavimentare le strade, quindi anche chianghètte, pietra più piccola, altro termine per indicare la rivendita di carne, ne esprime l’essenzialità dell’epoca.

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         Un piccolo locale, quasi disadorno, qualche gancio al muro per appendere un agnello a testa in giù, o mezzo maiale, un banco vendita, un grosso ceppo di legno dove poggiare pezzi grossi da sezionare, parti con ossa da spezzare, e dietro al banco l’uomo con le maniche della camicia arrotolate al gomito, un grembiule bianco spesso sporco di sangue, l’operatore, il macellaio, ‘u chianghìre.

Oggi è la carne di pollo che soddisfa le esigenze di chi non può permettersi di

3scegliere nella vetrina della “boutique”, costa poco, gli allevamenti intensivi e in batteria abbattono i costi, poi è carne bianca, raccomandata dai medici e dai dietologi, una di quelle raccomandazioni che chi se lo può permettere osserva raramente. Una volta era la “Bassa macelleria” che riusciva a soddisfare le esigenze dei più bisognosi.

La scritta a caratteri cubitali “BASSA MACELLERIA” si trovava anche su un muro del nostro ex Mercato Coperto. E’ stata cancellata un po’ di anni fa.

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Lì si potevano trovare i tagli meno pregiati, o meglio quelle parti degli animali meno gradite ai palati fini. Ma la fame e l’inventiva delle donne riuscivano a ricavarne succulente pietanze: brasciole di cotenna di maiale per il ragù, ma anche ricavate dalle rosee mammelle di un animale vaccino, la cui testa poi  assicurava un buon brodo per famiglie numerose. Così la lingua, la coda, le interiora,  intestini di agnello per i torcinelli, la coratella (cuore, fegato, milza e polmone), ‘i mevezòlle, milze da preparare  ripiene di aglio, prezzemolo e tanto pepe. ‘A capuzzèlle (testina di agnello) al forno con patate che ti guardava dal piatto senza ciglia e con gli occhi sbarrati. “La salsiccia del pezzente”, ricavata dalle parti meno nobili del maiale, i piedini di maiale, “rècchije, pède e mùsse” una specie di composta bollita fatta con le parti meno pregiate del maiale e condita con abbondande limone.

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Pietanze che davano quel minimo necessario di integrazione alimentare rientranti nella categoria degli “abbuttapezzìnde”, piatti e pietanze che comunque saziano e allontanano il senso della fame.

 

 

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